Due autori diversi raccontano storie di ordinaria umanità. Bellissime

JACK KEROUAC E CARLO VERDONE: LA MALINCONICA ARIA DEL BLUES

Jack Kerouac
Carlo Verdone

Nel gran baccano di pensieri che ti assediano da dentro e da fuori, ti ritrovi in un vicolo occupato dal ciarpame del tuo dolore. Ti chiedi perché. Non ha importanza se sei “un barbone che brontola dentro a un lacero abito marrone” o un uomo dalle “grandi tasche e soprabiti pesanti”. Non ha importanza se “ogni miele di ragazza d’oro viene e stordisce con il suo cuscino fra i miei capelli, io me ne infischio. Wha? Pecc?” Perché?

“Sulla strada ho visto tre tizi in piedi al sole a parlare tranquilli, e di colpo uno salta per il male e sventola in aria le dita perché si è bruciato una mano con il fiammifero accendendo una cicca. Gli altri due tizi nemmeno se ne accorgono. I tizi, là, non hanno manco capito che il dolore è uno solo, dappertutto?”

Sono i versi che Jack Kerouac, lui, il poeta irrequieto e nomade, compone tra il 1953 e il 1961 nel suo vagabondare tra i bassifondi di San Francisco fino a Città del Messico. Sono fulminazioni intense, non filtrate dal linguaggio aulico a dal conformismo borghese di una poesia “alta”; sono versi crudi, incontrollati, di cui è difficile condividere l’atteggiamento spesso brutale contro le donne, la celebrazione di una vita on the road, tra alcol, droghe e sesso. Ma sono versi in cui c’è tutto il dolore di un’esistenza che tracima dentro; versi che si susseguono uno dietro l’altro, seguendo il suono delle parole schizzate sul piccolo blocco a spirale che Kerouac portava con sé, nella sua tasca posteriore. Versi blues. Book of blues (edito in Italia da Mondadori) è infatti il titolo che lo stesso Kerouac, il padre della vita disordinata e ribelle, annota per la propria raccolta in un manoscritto inedito, lasciato in un archivio ordinatissimo. In una nota introduttiva, Kerouac specifica che ogni sua poesia dipende, come nel jazz, dalla spontaneità e dall’ispirazione. “Consideratemi – diceva Kerouac- un poeta jazz che suona un lungo blues in una jazz session pomeridiana la domenica.”

Strano. Non c’entra assolutamente nulla con Kerouac, con la beat generation, con il jazz in senso stretto, ma è il più bel libro di blues che abbia letto in questi giorni. È La casa sopra i portici di Carlo Verdone (appena edito da Bompiani). Il regista ripercorre la propria vita attraverso la casa romana, in via Lungotevere dei Vallati 2, in cui è nato e ha vissuto la sua giovinezza. Ma lo fa con quella struggente autoironia e profonda malinconia che appartiene al blues: lui che soffre per la morte della zia Lina, lui che aspetta sotto casa e molla una sberla al ragazzo che diverrà, davvero, il marito di sua sorella, Christian De Sica; lui e i suoi tanti (e talvolta esagerati) scherzi, lui e suo padre, Mario Verdone, noto critico di cinema e di storia dell’arte (che, per paura di privilegiare il figlio, lo boccia all’esame di Storia del cinema). E alla fine ti ritrovi in quell’elegante appartamento dal sapore ottocentesco, nella “casa dei dei rumori e degli odori” che ha ospitato i più importanti personaggi della cultura e dell’arte: Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Leonard Berstein, Alberto Sordi, Roberto Rossellini, Sylvano Bussotti, Renato Guttuso, Franco Zeffirelli… Sei lì, vuoto e solo… “in una dimora senza più vita. C’ero soltanto io e il suono dei miei passi che percorrevano lenti, ricordi sbiaditi, opachi. Non sembrava una costruzione di mattoni ma un organismo vivente e palpitante. Quella scenografia umiliata, nuda, non voleva ancora morire. Uno scatto, un altro ancora, poi il mio sguardo si posò sulle finestre bagnate dalla pioggia. Anche le finestre stavano piangendo insieme a me.” No, non è un blues, ma è come se lo fosse.

Manuela Furnari

Jazz e dintorni
direttore responsabile Armando Brignolo
Fabiano Edirore

aprile 2012